Guido Mariani
La notte delle Candele
Copertine Libro
Guido Mariani
La Notte delle Candele
2018
INDICE
PROLOGO : Carta di identità di uno sconosciuto..................................5
PARTE I : Felice sulle tracce dello zio Gillo..........................................7
PARTE II : L'Americano.......................................................................17
PARTE III : Leone l'amico di Gillo......................................................33
TUTTA LA STORIA
Capitolo I
Natale senza guerra.................................................................................57
Capitolo II
Il nonno...................................................................................................65
Capitolo III
Pronto soccorso......................................................................................73
Capitolo IV
Salvataggio di un Verdone......................................................................83
Capitolo V
Leone.....................................................................................................101
Capitolo VI
Recupero teatrino..................................................................................113
Capitolo VII
Il ritorno di Andrea...............................................................................133
Capitolo VIII
Fine della scuola...................................................................................155
Capitolo IX
Al lavoro...............................................................................................179
Capitolo X
Gemma..................................................................................................195
Capitolo XI
La previsione del diluvio......................................................................215
Capitolo XII
Stellina diventa mamma.......................................................................245
Capitolo XIII
6 Aprile 1924........................................................................................271
Capitolo XIV
Gillo, Paolina e i fiori...........................................................................293
Capitolo XV
La notte delle Lucciole.........................................................................323
Prologo
Carta d’identità di uno sconosciuto
PARTE I
Felice sulle tracce di zio Gillo
Mio padre si chiamava Settimio, nome improponibile ai giorni nostri, ma abituale agli inizi del novecento.
Un giorno curiosando nel suo comodino trovai la carta d’identità di uno sconosciuto, tale Terzino Lupeini, nato nel mille novecento dieci.
In famiglia non si era mai parlato di un personaggio del genere.
Così, dal fondo di un cassetto, inaspettatamente apparve un altro parente: zio Terzino.
Era una novità impossibile!
Questo nuovo e inaspettato zio aveva anche un volto e quegli occhi acuti fissavano proprio me dalla sua carta d’identità.
Io ho sempre conosciuto zio Neno e zia Fiorenza, sapevo di un altro fratello di nome Gillo nato nel millenovecento dieci; morì nel quarantanove ancor giovane.
La scoperta di avere un altro zio fu veramente un’irruzione nella mia mente di ragazzo.
Andai a cercare notizie perfino al cimitero, nella cappella di famiglia.
Oltre ai nonni, Andrea e Felicetta, vi erano seppelliti diversi Lupeini: Virginia, Tancredi e Oreste tutti fratelli di mio padre, morti ancora bambini.
Sulla lapide di zio Gillo c’era scritto “Morto a trentanove anni il 20 Aprile 1949”.
Neppure lì trovai qualche riferimento a Terzino Lupeini.
La scoperta della carta d’identità fu evidente conferma che papà non amasse raccontare della sua vita giovanile.
Era disposto a
raccontare ed anche loquacemente del suo periodo di soldato, ma non della vita familiare.
Non parlava mai specificamente di un fratello o dell’altro, oppure dell’unica sorella, nei suoi ricordi si riferiva
sempre ai “fratelli”. Tutto avveniva fra lui e i tre fratelli.
Questi non avevano un’autonomia personale, una propria realtà.
Nel suo modo di parlare lui e i fratelli erano un tutt’uno.
Loro non esistevano separatamente.
Oltre alla reticenza sulla vita di famiglia ora sembrava che avesse nascosto anche l’esistenza di un quarto fratello.
Che Terzino e Gillo fossero nati nello stesso anno era possibile, magari uno a gennaio e l’altro a dicembre.
Però nella carta d’identità dello zio Terzino la nascita appariva il dieci Maggio.
Ma se zio Gillo fosse nato entro dicembre sarebbe stato troppo prematuro per sopravvivere.
Allora, se veramente Gillo e Terzino fossero fratelli nati nello stesso anno, non potevano essere altro che gemelli.
Fatta questa considerazione, detti per accertato che Gillo e Terzino fossero realmente gemelli.
La vicenda di zio Gillo, oscura e impenetrabile, iniziava ad avere qualche novità.
Non era difficile immaginare come la vita di due gemelli potesse incappare in qualche vicenda indicibile.
Per ora si sapeva che uno dei due, Gillo, morì di malattia, pochi anni dopo la fine della seconda guerra.
Se dello zio Gillo erano trapelate solo minime notizie, dell’altro gemello, Terzino, buio assoluto.
Nessuno aveva mai fatto menzione di questo nuovo Lupeini;
ma ora era innegabile che fosse esistito.
La sua carta d’identità rappresentava un dato di fatto indiscutibile.
Il mistero, però, era ancora molto fitto.
Il documento di riconoscimento di Terzino Lupeini era elemento di certezza non si trattava di chiacchere paesane o di vaghi ricordi.
Dopo il sopralluogo nella cappella di famiglia chiesi a mio padre notizie precise. Si era a pranzo:
“Papà, ma perché non ci parli mai del gemello di zio Gillo? “
Papà mi guardò impressionato:
“Felice… vaneggi? Che cosa sono queste fantasticherie!
Come ti viene in mente che zio Gillo avesse un fratello gemello?”
“Di zio Gillo non sappiamo proprio niente; se ne parli a quelli che lo hanno conosciuto, subito guardano in terra e si inventano qualcosa di insignificante.
Se chiedo notizie alla mamma, mi risponde di domandare a te… Oggi, per caso, mentre cercavo il tuo orologio da portare all’orologiaio, nel cassetto del comodino mi viene davanti il tuo porto d’armi.
Lo apro per vedere la fotografia e che trovo?
La carta d’identità di un altro Lupeini! Si tratta di un certo Terzino Lupeini nato anche lui nel millenovecento dieci, proprio nello stesso anno di zio Gillo.
Papà, ma che mistero c’è dietro?”
“Non c’è proprio nessun mistero… Terzino e Gillo sono la stessa persona”.
Sembrava una bugia proprio ben messa, ma il capo di mamma nel gesto di acconsentire mi fece accettare questa strana verità. Poi papà aggiunse:
“Terzino era il nome di battesimo ma tutti lo abbiamo sempre chiamato Gillo. Felice… io non so il perché.
Ma le cose stanno così.” Tagliò corto mio padre.
Dato che si era nell’argomento, incalzai mio padre chiedendo se fosse morto a causa della guerra.
“No, era malato”.
Mi resi conto d’aver fatto una figuraccia colossale.
Nella frenesia di trovare chiarezza nella vita di zio Gillo avevo preso un abbaglio puerile e me ne vergognai.
Infatti, ero già grande quando scoprii che zio Gillo si chiamava in realtà Terzino.
Che papà non ne volesse parlare era evidente.
Quando si affacciava la possibilità di entrare nel discorso di questo fratello, glissava su altri argomenti.
Dopo qualche tempo tornai alla carica.
In quell’ultima richiesta di chiarimenti sullo zio Gillo si creò una situazione che definirla imbarazzante non rende affatto l’idea.
Il momento fu veramente drammatico.
Si era di nuovo a pranzo e si divagava su vari argomenti.
Mentre fissavo gli specchi d’olio della minestra, mi sembrò opportuno infilare la richiesta:
“Ma insomma, papà, questo zio Gillo o Terzino, che dir si voglia, che tipo era?”
Nel silenzio delle posate e delle voci, l’attimo che passò fu lunghissimo e greve come un macigno.
“Felice… per favore… non insistere, zio Gillo morì giovane di malattia.
Fu una lunga malattia.”
Alzando la faccia dal piatto mostrò due occhi rossi ai limiti del pianto.
Il pranzo finì senza sentire altri suoni e senza passare al secondo piatto.
Dopo quell’occasione, alla presenza di papà, non si è più parlato
di zio Gillo….
.....omissis
.....In questi momenti di serenità domestica riuscivo a sentire mia madre come una parte di me.
Mia madre aveva quello che io non riuscivo a essere.
Lei aveva il potere di materializzare le mie idee.
Lei, che era stata capace di materializzarmi dal nulla, ora dimostrava di poter materializzare anche i miei desideri.
Eravamo perlopiù in silenzio o divagando su questioni scolastiche.
L’argomento più frequente era la mia difficoltà con la matematica.
Ma parlavamo un po’ di tutto.
Nei momenti di stanca io buttavo là con malcelata indifferenza e quasi per caso, il discorso ormai antico.
Una volta le dissi:
“Checco Nennere mi ha detto che, se non era per la malattia, zio Gillo sarebbe diventato senatore.
Ha detto che conosceva generali di tutti i tipi e teneva soldi in Inghilterra e in Svizzera…”.
Per tante volte ancora ho provato modelli ed imbastiture, ma questa fu l’ultima volta che, in casa, io abbia mai più parlato di zio Gillo;
neppure con mia madre.
Per anni e anni e ancora più in là dei miei vent’anni, lei ha continuato a tagliarmi camice e vestiti, a costruire maglioni e gilet.
Con i ferri, poi, era di un’abilità speciale.
Fu così che dopo quest’episodio ho evitato di parlare del mistero di zio Gillo anche con lei.
In quest’ultima occasione, però, si lasciò sfuggire involontariamente una frase che non avrebbe mai voluto dire:
“Malattia, malattia!! Tsh!
Altro che malattia! L’hanno ucciso!
Dovevano salvarlo”.
Si arrestò con un brivido, portò le mani in testa e mentre si tirava con forza i capelli, aggiunse:
“Adesso anche Checco Nennere… puah!
Anche Checco Nennere si permette di parlare di Gillo.
Se ne stia zitto quell’imbecille!
Pensi piuttosto alle sue corna: ogni sabato ne spunta una nuova su quella zucca pelata!”
Mi prese per le spalle e premendo con forza disse:
“Felice, stammi a sentire!
Io ho detto che l’hanno ucciso…, ma queste cose si dicono involontariamente… con rabbia.
Non sono la realtà dei fatti.
Non è proprio così che sono andate le cose.
Ho sbagliato, avrei dovuto dire che l’hanno lasciato morire e non che l’hanno ucciso.
La nostra famiglia non ha mai più parlato di questa triste storia, tutte le persone che ci conoscono lo sanno e si guardano bene dal promuovere anche il più timido accenno.
Io capisco la tua curiosità.
E’ ancora troppo presto per parlare di queste cose.
Non c’è stato nulla di morboso, solo una storia molto dolorosa.
Oggi per te, sapere o non sapere i fatti di zio Gillo, non cambierebbe proprio nulla.
Per chi l’ha vissuta, invece, sentir parlare di quell’argomento è come girare un coltello nella piaga, ancora affatto guarita.”
Rossa in volto e tremante continuò:
“ Ti prego, non creare ancora situazioni dolorose soprattutto per tuo padre ma anche per zio Neno e per zia Fiorenza.
Guarda, è l’ultima volta che parliamo di quest’argomento.
Anzi delle cose che hai sentito oggi non parlarne mai e dimenticale del tutto.”
Mia madre è sempre stata molto impulsiva, in quell’occasione rimase tanto sconvolta da dover andare a rinfrescarsi il volto.
Aveva iniziato a stirare una camicia appena finita di cucire; io ero lì, ansioso, davanti alla tavola da stiro perché volevo indossare il capolavoro ormai pronto.
Mia madre aveva tagliato e poi cucito una camicia che io avevo disegnato e voluto.
Questa fu la prima camicia interamente ideata da me.
L’aveva fatta con slancio, ma non so se le fosse piaciuta davvero.
Da parte mia c’era forte tensione ed aspettativa: friggevo dal desiderio di provarla.
Avevo disegnato una camicia con il collo molto alto e con i pizzi larghi e arrotondati.
Era previsto di portarla ampiamente aperta sul torace e, pur essendo estiva, doveva essere a maniche lunghe e rigorosamente senza taschino.
Doveva essere di tessuto molto leggero, con disegno fiorato a colori appariscenti; avevo chiesto di scegliere colori con preponderanza dell’arancione.
Era un modello copiato dalle camice di Shel Shapiro dei Rokes.
In quei tempi imperversava il nostro beat.
Eravamo i “figli dei fiori”.
Mentre dava gli ultimi ritocchi alla camicia, sfilando tratti residui di imbastitura, mia madre mi disse:
“Senti un po’ non è che vuoi prendere la strada dei Rokes?
Non è che vuoi fare concorrenza a Shel?”
Io risposi:
“A me i Rokes piacciono molto, sono il mio complesso preferito.
Mi attirano anche le parole della loro musica”.
“Felice, certamente lo saprai… Shel non canta cose sue… lui canta parole pensate e scritte da altri”....
Omissis …..
Capitolo I
Natale senza guerra
La storia inizia alla fine della grande guerra.
Forse è più giusto dire che la storia inizia con le conseguenze della Grande Guerra, la prima guerra mondiale.
Gli orfani di guerra a Coriliano erano undici.
Molti non hanno mai conosciuto il padre, altri non lo ricordavano più.
Coriliano è un piccolo paese con meno di duemila persone e venticinque soldati non erano più tornati.
La Grande Guerra era costata all’Italia un milione di morti.
Una carneficina durata tre anni e mezzo.
Per chi era rimasto a casa, gli anni di guerra furono anni di raccolti perduti.
Anni di stenti.
Per chi era partito, furono anni di paura.
Una vita approssimativa; ogni giorno uccidere per non essere ucciso.
Quel giorno il curato del paese, Don Angelico, aveva appena finito di battere i dodici tocchi di campana del mezzogiorno e si accingeva a risalire in casa per il solito pranzo.
Lo aspettava un bel piatto fumante di pasta e fave con contorno di cipolla.
Salendo, in cima alle scale vide Peppa, la perpetua, che in preda a chissà quale delirio si dimenava ruotando le braccia in aria.
Con la bocca spalancata, accennava a voler parlare, ma non riusciva a far uscire neanche una parola, solo striduli rumoretti frammisti a piccoli acuti e strani sibili.
Congesta in volto, cominciò a battersi il petto come per deglutire.
Poi, quando don Angelico era quasi arrivato al pianerottolo, riuscì a fargli un chiaro gesto di fermarsi, di aspettare.
Con voce appena percepibile riuscì a dire:
È finita …. È finita…”
“Benedetta donna, non c’è da agitarsi tanto, calmati…”
Peppa, appoggiate le spalle alla porta, con entrambe le mani si sventolava il viso arrossato e fiammante.
“Se è finita la pasta, che vuoi che sia!
Mangeremo solo fave, magari con pane ammollato”.
Don Angelico gli passò davanti e andò a sedersi.
Trovò il tavolo regolarmente apparecchiato: un fiasco di bianco e il piatto fumante di pasta e fave.
Poco più in là erano pronte le cipolle condite con olio e aceto, una manciata di noci e caldarroste del giorno prima.
Con aria interrogativa si girò per guardarla.
Lei era ancora lì che si sventolava il volto in fiamme e asciugava il sudore della fronte e quello che dalla nuca le scendeva ai lati del collo.
Poi riuscì a sussurrare in modo chiaro:
“La guerra … la guerra è fi-ni-ta.”
Don Angelico strabuzzò gli occhi e disse:
“Benedetta donna, sembra che tu abbia visto il diavolo! Vieni, vieni qua e siediti.
Bevi un goccio e cerca di farmi capire bene.”
Peppa non si mosse di un centimetro, ma, con voce ferma e chiara volgendosi impettita verso il parroco dichiarò:
“Don Ange’, hai capito bene. Mentre tu suonavi il mezzogiorno, Stefano lo scopino è passato e ha suonato la trombetta!”
“Embè? Mi sembra giusto, ognuno suona lo strumento di
competenza!”
“Testa dura d’un prete…” mormorò pensando di non essere sentita.
Invece, don Angelico si girò per guardarla malamente e forse stava per aggiungere qualcosa, ma Peppa lo anticipò.
Alzò le braccia al cielo dicendo con tutta la forza disponibile nel suo petto:
“Correva, strillava e ogni tanto strombazzava, ha annunciato che la guerra è finita!”
Come fulminato, don Angelico rimase seduto con lo sguardo oltre i vetri della finestra.
Peppa gli si avvicinò e poggiando i pugni sul tavolo gli sillabò:
“E’ fi-ni-ta!”
Il parroco si alzò di scatto per guardare la strada.
Dalla finestra, sembrava cercare conferme alle parole di Peppa, oppure sperava di veder ripassare Stefano lo scopino.
Guardava giù dalla finestra e intanto, muovendosi, faceva ondeggiare la lunga veste nera come nell’indecisione di andare a destra o a sinistra.
In realtà restava ben fisso sui piedi, ma, a scatti, si girava per guardare in faccia Peppa.
Lei intanto aveva recuperato la posizione sul pianerottolo in cima alle scale.
Lo fissava con le mani strette sulla bocca e gli occhi spalancati che, al volgersi di don Angelico, si giravano giù per le scale.
All’improvviso capì: lei era bloccata in quel punto perché, silenziosamente, voleva che lui tornasse al campanile.
Si dette un colpo sulla fronte e come una furia le passò davanti.
Agguantò il mancorrente e si lanciò giù per le scale dicendo:
“Sì, sì…, si benedetta donna, devo immediatamente suonare le campane a distesa…”
Per andare al campanile doveva attraversare la chiesa.
Era una furia … e come una furia, passò davanti all’altare.
Sbuffando si segnò e s’inginocchiò, infine entrò nella porticina del campanile.
Alla penombra dell’angusto spazio, s’intravedevano penzolare le funi delle campane.
Agguantò la fune più piccola, quella della campanella, e la legò al piede.
Iniziò a forzare col ginocchio tirandola in basso.
A ogni colpo di piede corrispondeva un rintocco, quando il piede batteva terra lasciava la corda tornare in alto……
….Omissis…..
……… Lo specifico ritmo veniva ripetuto ininterrottamente e la gente lo riconosceva.
Era la cadenza delle grandi occasioni, il richiamo delle Grandi Feste.
La suonata si diceva a “distesa” perché ininterrotta, ovvero estesa nel tempo, e la si riconosceva per i colpi continui.
Profondi e cupi quelli del campanone, tanto potenti da non sembrare neanche metallici.
Rintocchi chiari della campana classica.
Martellante scampanio continuo della campanella.
Insomma, sullo sfondo di un acuto scampanellio ossessivo si sovrapponeva un colpo cupo del campanone intercalato da due colpi chiari della campana.
Era il modo solenne di comunicare nei giorni di grande festa.
Nelle domeniche e nelle altre feste regolari, si suonava solo la campana normale.
Invece, quando si sentivano soltanto i rintocchi lenti e cupi del campanone, erano certamente brutte notizie.
Di solito la morte di qualcuno.
Infatti, si diceva:
“Ho inteso le campane a morto; chissà chi sarà …, che Dio l’abbia in pace.”
Quando, invece, suonava la campanella da sola, si chiamava la gente alle le funzioni religiose pomeridiane o i ragazzi al catechismo.
Quell’insolito suonare a distesa all’ora di pranzo in un giorno feriale dapprima creò sconcerto, ma durò solo pochi attimi.
Poi tutti capirono.
La guerra era finita.
Per la stragrande maggioranza della popolazione non aveva alcuna importanza chi aveva vinto.
Sicuramente era finita. In qualunque modo fosse finita era comunque una vittoria.
Il suono a festa delle campane aveva invaso vicoli e piazze.
D’impeto, aveva scavalcato le mura del paese sino a raggiungere le campagne più lontane.
Senza ritegno la gente si lasciava cadere in ginocchio ovunque si trovasse.
In casa, per strada o nei campi, cogli occhi chiusi, ci s’inginocchiava facendo il segno della croce.
Molte lacrime caddero in terra quel giorno.
In pochi minuti tutti gli abitanti di Coriliano avevano raggiunto la certezza che erano finiti gli stenti.
Ormai bisognava avere pazienza.
Presto, tutti gli uomini sarebbero tornati dal fronte.
Tutti gli uomini, sì certo, tutti gli uomini rimasti vivi.
Dopo qualche mese dalla suonata “a distesa” di don Angelico iniziarono ad apparire in piazza gruppetti in grigioverde con cappello a busta e le gambe fasciate dal ginocchio alle caviglie.
Erano i “reduci”.
La maggior parte di loro ritornò a casa nel millenovecento
diciannove.
Andrea fu congedato fra gli ultimi, tornò a casa un anno dopo la fine della guerra.
Quando riapparve, mancavano pochi giorni a Natale.
Di un gran numero di soldati non si avevano notizie da vari mesi.
Andrea era sopravvissuto con certezza; lui stesso aveva mandato una lettera alla moglie Felicetta e lei l’aveva letta ai suoi figlioli: Gillo e Neno.
Loro sapevano che ormai c’era solo da aspettare ma il padre sarebbe tornato a casa.
Era stato trattenuto in servizio perché, insieme al suo battaglione doveva fare la guardia ad un ponte importante.
Con certezza, invece, il padre di Leone non sarebbe tornato mai più.
Lui lo sapeva ormai da diverso tempo.
Lo capì dal pianto e dalla disperazione della madre quando ricevettero la visita di due carabinieri con un biglietto in mano.
“No, non è vero! No, No! …”
Lei prese il biglietto e, senza leggerlo, si gettò sul letto.
I due carabinieri rimasero per pochi attimi sull’ingresso di casa e poi, a testa bassa se ne andarono in silenzio.
Leone, seduto da solo in cucina, sentiva la madre soffocare nel cuscino lacrime, singhiozzi e grida.
Avvertiva una pena angosciante, paralizzante, ma non gli usciva neppure una lacrima.
Era piccolo, spaventato, aveva appena cinque anni.
Lui non pianse, sentì solo un macigno comprimergli il petto.
La mamma tornò in cucina a prenderlo, ad abbracciarlo e a stringerlo forte a sé, silenziosamente.
Non aveva parole da dire.
Avvinghiato al collo della madre, avvertiva gli impulsi del seno
materno che trasmettevano i gemiti del pianto.
Solo allora percepì una profusione di calde lacrime inondargli il volto, silenziose.
Non sapeva piangere per la perdita di un padre che non aveva mai avuto:
piangeva per il dolore della madre.
Quando il padre fu richiamato in guerra, aveva poco meno di due anni e non ne aveva alcun ricordo, poi col crescere aveva imparato ad aspettarlo.
Prima dell’arrivo del biglietto lo attendeva come la madre:
dalla finestra della cucina guardavano la discesa dai Marroni, aspettavano in silenzio e con intensità.
Con certezza, aveva capito che ormai non c’era più nessuno da aspettare.
……………
…….omissis.
Capitolo II
Il nonno
Il nonno di Gillo raccontava storie incredibili e parlava di un altro tempo.
Il suo era ancora più lontano.
Nella mente arrugginita restavano paesaggi scomparsi e personaggi inverosimili, quel suo tempo era così diverso da sembrare improbabile che fosse mai esistito.
Eppure a quel tempo la forza gli gonfiava le braccia e nelle vene scorreva l’allegria.
I ragazzi erano lì, incantati.
Se il nonno parlava, Romeo riponeva persino le palline, in silenzio tutti ascoltavano stregati guardando gli occhi umidi di quel volto rugoso.
A volte, come parlando a se stesso, lanciava una frase e poi si riassopiva:
“Le famiglie benestanti avevano il carretto, quelle agiate il calesse; chi aveva le scarpe si sentiva ricco… la gran parte aveva solo i piedi nudi per muoversi.”
Un racconto, anche piccolo, riempiva un intero pomeriggio.
Nella mente si liberava una forza fantastica capace di correre su strade nuove e inesplorate, occasioni da immaginare, situazioni di pericolo, amici da cercare e coraggio da trovare.
In più il problema di sempre: la paura da nascondere.
Di pomeriggio il racconto era possibile ma non certo, talvolta era richiesto.
Il nonno era per lo più seduto sui gradini del pianerottolo di casa e quando la luce del sole era troppo forte, si spostava di pochi metri in avanti.
Il suo rifugio era nella piazzetta, all’ombra del pergolato.
Sedeva a fianco della porta del forno dove si contorceva una vite di uva fragola dai tralci penzolanti.
Il desiderio di raccontare gli arrivava improvviso e quasi impellente; erano i momenti della guerra d’Africa quelli che facevano fremere le dita e infiammare il volto.
In questi momenti di lucidità agguantava la manica del primo che gli passava accanto e con uno strattone lo tirava vicino a sé dicendo:
” Vieni che ti racconto di quella notte, quando a Saati gli abissini ci presero di sorpresa...” e le parole fluivano sciolte seguendo la traccia di ricordi nitidi.
“... fu a Bari che facemmo l’ultima sfilata in armi e alla fine, dopo l’alza bandiera, il nostro reggimento fu sciolto...”
Quando Gillo giunse sul pianerottolo, il nonno parlava a Paolina e poco più in là c’era anche Romeo che forse ascoltava; intanto, però, contava le palline.
“... grandi festeggiamenti, musiche e salve di cannone, discorsi, squilli di tromba, ognuno mostrava la propria contentezza.
Tutti cercavano di essere allegri ma in fondo c’era il dispiacere di perdere, in pochi minuti, anche gli amici che dalla guerra si erano salvati...”
In quel momento il nonno stava bene, questo era evidente.
Parlava in scioltezza e brandiva l’inseparabile coltello dal manico d’osso, ora lo usava per spuntarsi le unghie.
Lo teneva esageratamente lontano dagli occhi perché da vicino non vedeva distintamente.
All’inizio arricciava il naso e stringeva le palpebre, ma alla fine era sempre costretto ad allontanare le mani fino ad una distanza ben precisa.
Altre volte, invece, lui stesso restava colpito dalla sua
disinvolta abilità.
Il nonno aveva unghie spesse e dure, d’un giallo opaco come il manico del suo coltello.
Quelle mani grosse, dalle dita nodose, terminavano con unghie dure come l’osso.
Avevano curiose scannellature trasversali, più evidenti nel pollice e nel medio di ogni mano.
Paolina sembrava molto interessata a quell’inconsueto uso del coltello.
Il nonno lo teneva agganciato a una catenella ed assicurato ad un passante dei pantaloni; brandiva quell’attrezzo affilatissimo con grande disinvoltura ed incurante della possibilità di procurarsi una ferita.
“Ciao nonno!” disse Gillo quando gli fu vicino “Senti, nonno, ti volevo dire di quel piccolo uccello di ieri... “
“Che dici! ... Ma quale uccello...”
Il nonno aveva voglia di parlare, si capiva dallo sguardo e dal tono deciso ma Gillo continuò:
“E dai! Ma non ti ricordi? Te l’ho fatto vedere dentro una scatola aveva solo le piume... un’ala spezzata... e tu hai detto che forse era un verdone...”
“Di quale uccello parli?” ribatte’ il nonno piuttosto stizzito, “ma che c’entra adesso il verdone... ssss, “e, gesticolando come per indurlo a sedere sui gradini, continuò:
“Senti... senti, giù mettiti giù e stammi a sentire...ehm... dunque, prima dicevo a Paolina che quando tornai a casa trovai una situazione strana, la guerra era finita ma la pace non era di certo tornata in paese, anzi.”
Gillo gli sedette affianco, sapeva che non era il caso di insistere e rimase in silenzio ad ascoltare.
“Io partii per il fronte con il primo scaglione e tornai in paese solo alla fine della guerra.
Veramente sarei potuto tornare varie volte ma, per motivi che non sto a raccontare, le licenze l’ho passate sempre laggiù.
Partii assieme a Lelle Luna Piena, Romano mio cugino, c’era Giuanni Mastranese, Gustavo dell’Etterina, Sdanillao e mi pare che c’era pure Nino ‘e Moretto.
Solo io e Lelle Luna Piena tornammo a casa.
Tutti gli altri della mia classe sono rimasti nella sabbia o sui prati d’Africa a far cibo per gli insetti.
Solo Romano mi’ cugino era venuto via prima... lui, però, era stato ferito durante una battaglia in Eritrea, una scheggia di granata gli s’infilò dentro una coscia e ancora oggi se la porta appresso...”
“Come?!” disse Paolina sbalordita.
Il nonno non badò all’esclamazione di sorpresa di Paolina e continuò:
“Il giardino pubblico era pieno, e la fanfara attaccò con Giocondità... la sapete no?
Quella che fa: Taaa...!!!, tarara ràaa..., tarara rà, tarara rà, tarara...raaa...!!!”
Gillo e Paolina lo guardavano esterrefatti.
Sentire il nonno che accennava a cantare era una cosa impossibile da immaginare e mai era accaduto prima.
Non solo, ma di fronte al palese stupore dei nipoti il nonno iniziò perfino ad accompagnare il ritornello con ampi gesti del braccio destro, in battere e in levare, proprio come un maestro di banda.
“Ci fecero una gran festa” continuò “venimmo giù dalla strada dei Marroni in corteo, con passo staccato e la fanfara davanti a tutti.
Un sacco di gente ci aspettava davanti al Giardino Pubblico, al nostro passaggio tutti applaudivano.
Le colonne dell’ingresso del
Giardino neanche si vedevano perché coperte da bandiere: quattro bandiere d’Italia per colonna, una per ogni lato.
Le Guardie Comunali con lo stendardo del paese andarono a fermarsi fra i due alberi dove era stato disteso un lenzuolo dipinto con larghi caratteri rossi: “Bentornati.”
Ogni frase del nonno era un’inaspettata novità, ogni scenario un paesaggio incredibile e il percorso cosparso d’insospettabili sorprese.
Quando si fermava per riprendere fiato, erano momenti speciali, inevitabilmente chi ascoltava si sentiva affascinato ed attratto, un alone d’incanto era sempre pronto a calare intorno agli ascoltatori.
Altre volte, mentre andava cercando le parole giuste per una nuova storia, gli occhi si offuscavano e lo sguardo si spegneva.
Il volto diventava inespressivo e assente, le mani tremanti e incerte.
L’usuale racconto emozionante si trasformava in un farfugliamento incomprensibile.
Aveva iniziato a dare segni di squilibrio mentale dopo alcuni mesi dalla partenza di Andrea per la guerra.
In breve tempo le sue ‘assenze’ iniziarono a condizionarne l’esistenza.
Lui che era sempre stato una persona dolce e mite, nei momenti d’incoscienza diventava agitato, ostinato ed incontenibile.
I vicoli echeggiavano delle grida dei ragazzini: rincorrevano la palla o il cerchio, schivando galline e polli al pascolo nelle piazzette.
Bande, armate di frecce e fionde, creavano nascondigli fra le immaginarie macerie e da lì fantasticavano di arroccarsi per difendere le loro donne mentre i nemici del paese tentavano l’ultimo assalto.
Tutti avevano un sussidiario da mettere nella cartella, un’aula scolastica e una maestra.
Non c’era più nessuno
che con gli occhi bassi di vergogna aspettava dietro l’uscio un pezzo di pane.
La fame, ormai, era solo un lontano ricordo, aveva i contorni di un volto arcigno, inquilino assillante e incomodo.
Si era insinuato in molte case e come ombra maligna aveva occupato il fondo delle madie.
Avvolgendosi con viscide ragnatele, soffocava perfino l’odore del lievito.
Quando il nonno confondeva la casa con la stalla, nessuno parlava più della guerra, nessuno aveva voglia di ricordare i tempi difficili.
A che serviva rinverdire passati dolori e sofferenze?
Non c’era più la fame... tutti ricordavano, ma nessuno aveva voglia di rievocare gli stenti e le privazioni.
Il ricordo della fame era mantenuto ben nascosto da chi aveva passato giorni e notti a sopportarne i morsi.
Non finivano mai quelle giornate quando non si riusciva a tacitarne il penoso malessere.
Era stata un’ossessione per tutti ed anche chi non l’aveva mai assaporata, era vissuto nel terrore di doversi confrontare con la sua conoscenza.
Ai nemici si mandano le peggiori maledizioni, ma nessuno è mai stato così malvagio da invocare la fame per i figli del nemico.
A nessuno tornavano in mente quelle sere lontane quando, nel silenzio assoluto e con gli occhi bassi, andavano a dormire pensando a quelli della porta accanto.
S’erano coricati già da molto lasciando la cucina fredda e vuota.
Prima di andare a letto non avevano trovato altro da mettere nello stomaco che la solita zuppa di verdure con rape selvatiche.
Sembra impossibile, eppure c’erano famiglie che non avevano proprio nulla da mangiare.
Neanche il pane, quello nero.
La generosità camminava nascosta nei grembiuli delle donne, solo loro sapevano cosa si poteva togliere alla propria famiglia per darlo agli altri.
All’angolo di un crocevia o alla tenue luce di un portone e nel segreto di sguardi vergognosi, il pacco di farina passava da un grembiule all’altro.
All’umiliazione di chi aveva bisogno di tutto, rispondeva la vergogna di chi poteva dare solo quel poco.
Nessuno tornava di buon grado a ricordare il periodo della fame nera quando, nelle case senza uomini, vivevano il tormento degli ultimi tempi di guerra.
Dietro ogni porta mancava almeno un figlio, un marito, un padre... ma erano tempi andati.
Ormai la fame aveva abbandonato le mura di casa, ma la sua mancanza non compensava il vuoto lasciato da quegli uomini che non avevano fatto ritorno.
……
Omissis….
Capitolo XV
La notte delle Candele
Neno e Leone tornarono su San Vito la domenica di metà Maggio per valutare le condizioni del nido di falco.
Furono fortunati. Appena arrivati nel nascondiglio di canne e ginestre, avvertirono un richiamo lontano.
Sembrava annunciare il ritorno e, di solito, era seguito da un altro strido al momento dell’atterraggio sul bordo del nido.
Neno e Leone, invece, percepirono diversi altri richiami e sempre più ravvicinati.
La cosa era strana.
Scrutando dalle fenditure del capanno si accorsero che i richiami provenivano da una Poiana che volteggiava in alto senza dare l’impressione di voler atterrare.
Evidentemente era un invito a essere seguita chissà dove, chissà perché.
D’un tratto quella che stava covando saltò sul bordo del nido e, dopo qualche momento d’incertezza, spiccò il volo.
Neno e Leone pensarono che si stessero allontanando insieme.
Questa era l’occasione giusta per arrampicarsi a vedere cosa c’era nel nido.
Come scoiattoli salirono entrambi.
Arrivò per primo Neno e riscendendo, disse sottovoce a Leone:
“Ci sono solo tre uova.
Fai presto, andiamo via subito!”
Anche Leone fu rapidissimo.
Appena toccato terra se ne andarono alla chetichella evitando il possibile ritorno di uno dei due, questo li avrebbe incastrati ancora nel capanno.
All’ora di pranzo erano già di ritorno, fu Neno a raccontare a
Gillo la presenza di tre uova:
“Sai, le uova sono per forma e grandezza come quelle delle galline, ma sono strane perché hanno il guscio di un rosa pallidissimo con parecchie macchioline rosso-violaceo.
Sembravano le uova colorate di Pasqua.
Erano molto calde.”
Gillo ci pensò un po’ poi rispose:
” Dunque…. i pulcini ormai stanno per nascere io direi che una settimana è poca, ma tre potrebbero essere troppe.
Allora facciamo che fra due Domeniche si va su.
Ci vengo anch’io e vediamo se dobbiamo aspettare ancora per pigliare un pulcino.
Fra due settimane potrebbe darsi che se ne possa prendere uno”.
L’impegno per l’infiorata dell’ultimo giorno di maggio era ancora lontano e Gillo era occupatissimo fra il lavoro nei campi, la manutenzione della stalla, la cura di Stellina e del torello.
La domenica successiva a pranzo disse a Leone:
“Senti, hai più parlato con qualcuno di quelli dell’Uliveto?
Bisogna pensare ai preparativi per il necessario...
Ricordiamoci che abbiamo dato la nostra parola di aiutarli a fare l’infiorata.
Non sarà sabato prossimo ma il successivo…”
“In classe con me ci sono due dell’Uliveto “, s’intromise Neno “si sono procurati un carretto per trasportare il materiale.
Sono pochi ma volenterosi, si stanno preparando.”
Leone finì di mandar giù una bella cucchiaiata di fagioli con le cotiche e poi disse:
“Gemma mi ha detto che oggi pomeriggio si sarebbe incontrata con Paolina a passeggio verso la Colonnetta, domani mattina mi avrebbe fatto sapere.”
Gillo, quasi non curante, disse:
“Avete più
visto quell’animale di Romeo?
Si era preso l’incarico di coinvolgere Paolina.
Lei è assolutamente importante, non vorrei che ci ripensasse…”
“Romeo non l’ho più visto”, rispose Leone, “ma se pensi che Paolina possa essere stimolata dall’interessamento di Romeo ti sbagli alla grande…”
“Scusa eh, ma perché? “, lo guardò con stupore Gillo.
“Non hai notato quanto Romeo le gironzola intorno?”
“Cosa vuoi dire…”
“Bah!... non mi sembra che Paolina badi alle attenzioni di Romeo.
Comunque per Paolina non mi preoccuperei, oggi ci parla Gemma…”
Quel pomeriggio di domenica, infatti, le due ragazze s’incontrarono a passeggio lungo la strada per Tignello.
Gemma era con Andreina e Paolina con Lidia.
Si scambiarono un bacio di circostanza poi Gemma gli disse subito:
“Complimenti, sono rimasta veramente impressionata dalla bellezza della vostra infiorata.
Gillo mi ha detto che l’artista sei stata tu, se non era per la tua maestria, loro avrebbero combinato ben poco.”
“Sai Gemma, alla fine quello che colpisce di più sono i quadri, le immagini, le figure.
Ma per arrivare a poterle realizzare ci vuole una preparazione e un lavoro organizzativo lungo e veramente difficile.”
“Non ho mai fatto esperienze simili, però non fatico ad immaginare la complessità dei preparativi…”
“Vedi Gemma, i ragazzi del Pian del Colle sono magnifici.
Collaborano fra loro senza invidie e in allegria.
Si aiutano l’un l’altro, non si tirano indietro facilmente.
Lidia ed io abbiamo solo reso concreto quanto da loro predisposto.”
“Gillo ha detto che avete lavorato una notte intera…”
“Sì sì… molto faticoso, mi devi credere, con loro ho fatto un’esperienza indimenticabile.
Difficilmente il livello raggiunto sarà ripetibile. Forse perché un risultato simile era assolutamente imprevisto.”
Gemma avvertì nelle parole di Paolina un calore forse sproporzionato.
Ne ebbe poi la conferma quando Paolina aggiunse:
“In fondo io non sono neppure di Pian del Colle ma del rione Sant’Andrea…”
Gemma non dette a vedere la sua percezione e rispose:
“Sì sì, a parte Leone con cui ci conosciamo da anni, gli altri ragazzi di Pian del Colle li ho incontrati all’arrivo della processione sull’Uliveto.
Mi sono accorta di un grande affiatamento fra loro.
In quell’occasione ho chiesto di aiutarci a fare una bella infiorata.
Sai, noi non solo siamo pochi, ma non abbiamo neanche certe capacità.
Gillo e gli altri si sono detti disposti, ma considerano indispensabile il tuo intervento.
Hai parlato con Romeo?”
“No, l’ho visto un paio di volte, ma non mi ha mai detto niente…”
“Strano, lui si era preso l’incarico di parlarti…”
“Lidia, tu che ne pensi… ti va di partecipare?”
“Mah! È stata una strapazzata mostruosa; ci ho messo due giorni per riprendermi…”
………….
Omissis………
………… Nonostante tale moltitudine di gente, quando Gillo salì sul pianerottolo, il silenzio fu subito totale e lui senza tergiversare prese a dire:
“Amici, per celebrare la novità del ritorno della processione dall’Uliveto abbiamo preso una decisione diversa.
Vi proponiamo una novità assoluta.”
Tutti gli occhi erano su di lui e Romeo si trovò a pensare:
“E’ sempre lui…. Non cambierà mai!”
“Amici… non useremo fiori ma luci.
Questa volta non abbelliremo il paese… questa volta lo illumineremo.
Questa notte di fine Maggio, per sempre sarà ricordata come la ‘Notte delle Candele’.“
Il sentimento collettivo non fu di sorpresa, ma di sbalordimento generale.
Si diffuse un chiacchiericcio rumoroso, poi il vocio divenne più pressante, ognuno si confrontava col vicino, voleva conoscere il suo pensiero.
Poi, dal centro della piazzetta e nel trambusto generale emerse la voce di Romeo:
“Sei sempre il solito… Gillo, non cambi mai… hai sempre qualcosa da tirar fuori dal cilindro.
Di fronte ad una proposta così provocante, sono proprio curioso di vedere chi avrà il coraggio di tirarsi indietro… “
Detto questo, saltò anche lui sul pianerottolo per dire:
“Neppure a me aveva detto qualcosa.
Mi sembra un’idea geniale… proviamo a misurarci con questa novità assoluta!”
Il consenso fu unanime e tutti si chiedevano come sarebbe stato possibile illuminare il paese.
Pian piano si delineò una discussione costruttiva e propositiva.
Dopo un’oretta di scambi di vedute fu presa la decisione più importante: avrebbero illuminato il paese con lumini di vetro, candele, lampioni di carta, fiaccole e torce.
Ne venne fuori una idea assolutamente originale, completamente diversa.
Il lavoro grosso era limitato al reperimento di pochi materiali: innanzitutto cera e stoppa per fare i lucignoli delle candele.
Non sarebbe stato facile trovare un gran numero di bicchieri e bicchierini di vetro.
Di questi più ce n’era, meglio era.
Decine di metri, non ancora precisabili, di sottile fil di ferro per costruire gabbiette su cui avvolgere carta colorata a protezione delle candele dal vento.
Tali gabbiette andavano fissate su quadratini di legno compensato che avrebbero costituito la base delle candele.
Da ultimo si abbisognava di grosso quantitativo di cartoncino per realizzare lo scheletro sferico dei lampioni colorati.
Questi avrebbero penzolato dai muri delle case e dai rami degli alberi incontrati durante il tragitto.
Il massimo effetto, però, era atteso da quelli appesi nei rami del duplice filare di querce che, dalle ultime case dell’Uliveto, scendevano all’incrocio con i Marroni.
Questa volta la variabilità dei materiali era esigua, inoltre disponevano perfino di un carretto per il loro trasporto.
Non ci sarebbe stato bisogno dell’intera nottata di lavoro.
La macchina operativa era costituita soprattutto dai ragazzi di
Pian del Colle e da quei pochi che Gemma era riuscita a racimolare sull’Uliveto.
Quindi Gemma e gli altri dell’Uliveto accettarono di buon grado che le immagini e i disegni sarebbero stati realizzati solo con la sequenza dei lumicini.
In pratica la sfida consisteva nel decorare con lumini e candele colorate i bordi della strada fino a raggiungere i muri delle case.
Sempre all’unanimità si decise che le candele colorate appoggiate in terra, sarebbero state solo di tre tipi: bianche, rosse e verdi.
I lampioni rotondi, da appendere sui muri e cornice delle porte sarebbero stati solo bianchi.
Dai rami delle piante di quercia, ai lati della strada, avrebbero penzolato decine e decine di lampioncini bianchi.
Ogni sporgenza o recesso dei muri sarebbe stata utilizzata per posizionarci qualcosa di luminoso.
“Dobbiamo fare di necessità virtù”, disse Paolina a una delle prime riunioni organizzative sul piazzaletto della casa di Gemma.
“Siccome il materiale non sarà vario, si corre il rischio di una certa monotonia.
E’ vero che potremo disporre anche della carta colorata, ma non avremo i fiori né la componente verde.”
Si guardò intorno e con voce ferma continuò:
“Bene, non abbiamo altra scelta.
Visto che dobbiamo far risaltare il nostro lavoro con pochi elementi, allora l’obiettivo sarà quello di colpire l’occhio in altro modo.
Porremo a contrasto il buio della notte con il bianco dei lumini, il grigio della strada con i colori delle candele.”
Non c’era bisogno di grandi menti per capire che si trattava di un’impresa affatto semplice.
Fortunatamente anche i frati collaborarono. Loro avrebbero
decorato, per proprio conto, con lumini di latta, il tratto di strada dalla Chiesa della Pieve sino alle prime case dell’Uliveto.
A Gillo sembrò un contributo, se non eccezionale, sicuramente rilevante.
Inoltre, a seguito dell’intervento del loro priore presso le ‘sepolte vive’ di Tignello, ottennero il necessario quantitativo di cera ad un prezzo simbolico.
Quando lo seppe Romeo a voce alta esclamò:
“Sorprendente! Incredibile… l’avarizia trucida dei Tignellesi non è riuscita a penetrare le mura del convento delle monache ‘sepolte vive’! “
…… omissis
Omissis………
……. Lei sollevò lo sguardo e, al poco chiarore della luna, i suoi occhi sorridenti erano madreperla.
A lungo stettero immobili a cercar luce negli occhi dell’altro, poi lei si girò dandogli le spalle e una colata di capelli corvini.
“Gemma… ora guardami e ti dirò come si fa la magia, ma mi devi promettere che la tenterai… e con attenzione.”
Andreina era lontana e non poteva sentire.
“Sì certo, proverò la magia.
Te lo prometto!”
“Allora… cerca la lucciola più luminosa e più vivace, aspetta il momento giusto e poi catturala.
Una volta che sei sicura di averla presa, mantieni le mani chiuse e quando arrivi a casa, mettila sul tuo comodino sotto un bicchiere di vetro.”
Non vedeva bene il volto di Gemma perché coperto dalla sua ombra.
Allora Gillo si spostò un poco e trovò gli occhi di lei che lo guardavano intensamente.
Subito continuò:
“Domani mattina quando solleverai il bicchiere solo se la lucciola
vola via esprimi un desiderio.
Lei lo porterà con sé là dove tutto è possibile e il tuo sogno si avvererà di sicuro.
Se invece la lucciola non avesse più capacità di volare, allora non potrà farlo realizzare.”
Lei lo guardò con occhi sgranati:
“Non ti preoccupare, starò molto attenta ed esprimerò il desiderio solo se la lucciola vola via.”
“Bene, molto bene”, rispose Gillo.
Mentre ancora le teneva le mai continuò:
“Ora ascoltami con attenzione… se invece la lucciola fosse morta non devi esprimere alcun desiderio perché accadrebbe tutto il contrario di quello che vuoi.
Questa è la punizione per aver ucciso una lucciola!”.
Gemma rimase silenziosa e intimorita.
“Oddio! Starò molto attenta… dirò il mio desiderio solo dopo che sarà volata via!“
“Perfetto”, esclamò Gillo.
“Adesso ne prendo subito una…”
Gillo la bloccò:
“Non ora. Aspetta di avvicinarti a casa, sarà meno difficile trasportarla e soffrirà di meno.”
Dopo un attimo di silenzio continuò:
“Adesso è bene che io ti lasci e che ti raggiunga Andreina…”
Gemma gli prese le mani e facendogli sentire il suo corpicino gli si accostò fissandolo negli occhi e i suoi erano scintillanti nel dirgli:
“Tu mi hai insegnato una magia, adesso io voglio regalarti un segreto… avvicinati!”
Gillo, sorpreso, sentì intenso l’abbraccio mentre, delicatissima,
una carezza di soffici dita gli lambiva i lati del collo.
Si abbassò verso di lei e nel suo orecchio risuonò:
“Anch’io ti voglio molto bene… e per tutto il tempo che non ci vedremo, io ti sentirò sempre vicino.”
Gillo, incapace perfino a respirare, sentì le labbra calde di Gemma molto vicine alle sue e subito la vide allontanarsi.
Tornò in sé quando fu raggiunto da Andreina che di corsa andava ad affiancare Gemma.
Lei, prima di salire in casa, inseguì la lucciola più scintillante, gli tese l’agguato e poi fece scattare la trappola.
Era certa che fosse rimasta nelle sue mani.
Una volta a casa, la lasciò cadere sul ripiano del comodino e subito la coprì con un bicchiere di vetro.
Con sua grande sorpresa si accorse che, del tutto involontariamente, ne aveva prese due.
“Bene”, pensò fra sé”, con due lucciole il mio desiderio avrà ancor più possibilità di realizzarsi………
Omissis…..